giovedì 29 maggio 2014

A metà fra il sogno e la coscienza di sé

Quello che segue è un piccolo pezzo che ho scritto cinque notti fa, mentre il sonno stava per sconfinare nel sogno e la veglia si faceva sempre più esile assottigliando la razionalità.

Ho cercato di ritoccarlo il meno possibile per mantenere immutata la sua carica originale; una carica molto assonnata forse, ma non priva di suggestioni.


La malinconia è sempre la stessa, poiché sempre gli stessi sono i venti che soffiano e sbraitano dando vita alla tempesta in balia della quale mi contorco.

Ho perduto le vele, il sartiame mi si avvolge come le spire del flagello divino attorno a un novello Laocoonte, i remi sono stati spezzati da onde troppo impetuose perché la mia esile barchetta potesse non ribaltarsi. Ed eccomi qui, aggrappato coi polmoni all'ultima bolla d'aria sempre più asfissiante che si consuma sotto lo scafo del cielo capovolto, lottando con tutto me stesso per non cedere e non lasciarmi andare all'obliato abbraccio delle profondità abissali spalancate sotto di me.

La salsedine brucia le ferite, e le cicatrici dell'animo mi sfigurano fin dentro ai ricordi. Che cosa vedo nello specchio d'acqua infida, cosa che valga la pena salvare? Mi trascinano al fondo le pietre tombali al collo dei miei sogni.


Dal punto di vista formale, lo stile si basa molto su una costruzione a frasi parallele "imperfette", dove una delle due (tipicamente l'ultima) è enormemente più lunga della prima, come un qualcosa che non vuole accennare a finire. L'effetto è quasi insopportabile, come se tante cose si affastellassero assieme opprimendo il nostro senso del comprendonio.
Potrei fare lo splendido dicendo che era tutto voluto, ma la verità è che quando ho scritto ero troppo fuso per pensare qualcosa di quanto segue. Per cui delle due una: o ho talmente interiorizzato certi principi retorici di base da riuscire ad applicarli in automatico... oppure sto solo cercando a posteriori di giustificare qualcosa scritto con uno stile "da posteriore".

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