martedì 2 aprile 2013

Pensieri di politica antipopulistica: di capi e di democrazie

Nuova riflessione politica, stavolta mediata da un briciolo di filologia; è la premessa a una terza riflessione dello stesso genere che sto elaborando in questi giorni.

Pensieri di politica antipopulistica #2

Ovvero come esaltarsi per il passato senza riflettere sulle sue implicazioni


Qualsiasi studente di quinta ginnasio con la media dell'otto è portato a considerarsi un classicista fatto e finito, capace di comprendere tutto quel che gli antichi Greci avevano da dire; ma, se questo ragazzetto dovesse poi intraprendere la strada per diventare veramente un grecista, si renderebbe ben presto conto di quanto poco sapeva e capiva quando era convinto di conoscere e di saper capire tutto il mondo classico.

Purtroppo, i facili entusiasmi per la cultura classica non sono una prerogativa dei liceali esaltati; anzi, potremmo dire che l'eredità classica pesa come un convitato di pietra sull'intera cultura occidentale, influenzando anche il pensiero di chi si pone in rottura rispetto ad essa. Eppure, spesso le letture della classicità sono quantomeno ingenue e forzate, dettate da un desiderio di cercarsi qualche “santo” o un “padre nobile” più che dalla volontà di comprendere veramente il mondo antico.
Per non sprecare troppe parole, potremmo fare l'esempio di Gaio Giulio Cesare, “Gaio” di nome e di fatto: il conquistatore delle Gallie era un noto bisessuale, tanto che i suoi avversari politici lo chiamavano “donna” per la sua propensione al dare e ricevere in eguale misura. Eppure, oggi Cesare è uno dei “miti” dell'estrema destra... quella stessa estrema destra che odia gli omosessuali fino all'omicidio, e che pure colloca nel suo olimpo il più noto “culo” dell'antica Roma. Sul versante opposto, durante la liberazione dal nazifascismo molti partigiani hanno esaltato le figure dei cesaricidi Bruto e Cassio quali precursori delle proprie battaglie; eppure, la realtà storica ci consegna non la figura di due acerrimi nemici della tirannide liberticida, quanto il meschino ritratto di due figuri (nel caso di Bruto, fra l'altro, sappiamo che era un usuraio di prima risma) che intendevano ristabilire l'oligarchia, non certo la libertà di una repubblica che mai fu democrazia.

Ci sono tanti altri esempi di “male letture”, per non dire “letture forzate e capziose” del passato; letture che lasciano sempre un poco interdetti quanti il passato lo studiano e lo conoscono meglio dei più.
Così, quando negli ultimi anni Dario Fo ha più volte letto e citato il famoso “discorso di Pericle” tramandato da Tucidide, il classicista che è in me ha sorriso fra sé e sé.
Come mai? Beh, perché il discorso in questione è con ogni probabilità un falso: gli storici greci erano soliti infarcire le loro opere di discorsi “che sarebbero potuti essere pronunciati” in quel modo, in altre parole veri e propri falsi; e Tucidide è uno dei più celebri rappresentanti di questa tendenza. Fra l'altro, sappiamo per certo che non era costume fra gli uomini politici ateniesi del V secolo trascrivere i propri discorsi: si conservavano sì i verbali e gli atti delle sedute del consiglio cittadino (formato da tutta la cittadinanza, ovvero dai soli maschi adulti di condizione libera e origine ateniese), ma non i singoli discorsi dei singoli uomini politici.
Pertanto, il discorso celebrativo della democrazia tanto spesso citato da Fo è, al meglio, una rielaborazione a opera di Tucidide del discorso realmente pronunciato da Pericle. Ovvero, un rifacimento a opera di un oligarchico, avverso alla democrazia periclea, che non rinuncia a portare avanti un – neanche troppo – velato attacco al sistema democratico vigente nell'Atene classica.
Perché l'uomo politico che si esprime sull'uguaglianza degli ateniesi, Pericle, è prima di tutto un individuo di nobili origini e ricchi natali, che ha scelto di sostenere gli interessi del popolo pur essendo un discendente delle più nobili famiglie di Atene; in secondo luogo, pur in regime democratico è stato di fatto il “capo” della città per un intero trentennio. Ha sempre governato in accordo alla volontà della maggioranza, ma del volere di tale maggioranza si è fatto lui stesso guida e interprete. Ha sì contribuito allo sviluppo di un periodo storico che brilla come un faro anche a più di duemila anni di distanza, ma ha anche inaugurato una politica imperialistica spietata nei confronti dei cosiddetti “alleati”, ridotti a essere poco più che tributari.
Così, mettendo in bocca a Pericle un discorso di elogio allo stato ateniese, Tucidide intende segnalarne il grosso limite, il fortissimo rischio che la democrazia corre di trasformarsi in un regime dove il “demos”, il corpo civico, diventa solo uno strumento di legittimazione per un capo unico capace di blandirlo e di solletticarne gli appetiti. Un capo che può essere illuminato, bendisposto verso i suoi concittadini e lungimirante come Pericle, ma anche un guerrafondaio integralista e intollerante, eppure capace con la propria retorica di accattivarsi anche il sostegno di quanti vengono danneggiati dalla sua politica, quale fu Cleone, il demagogo che fu il successivo leader di Atene.

Dubito fortemente che Dario Fo, quando si entusiasmava ed entusiasmava mezza Italia con il discorso di Pericle, abbia mai riflettuto su questi aspetti del testo. Ne dubito perché altrimenti non si sarebbe esaltato così tanto per un Cleone redivivo, un riccone di prima categoria che si spaccia per povero, un retore consumato la cui prima arma retorica è quella di sembrare un uomo comune, un “insultatore dei nemici” più che un “oppositore degli avversari”, un referente di ceti medio-borghesi che convince il popolino di fare anche i suoi interessi, un individuo intollerante che non sopporta si faccia satira sulla propria persona ma che si sente libero di attaccare ferocemente tutti gli altri.
Ma che vogliamo farci, la storia si ripete; e non perché certe situazioni siano inevitabili, ma perché siamo fessi oggi come eravamo fessi 2400 anni fa. E, in un certo senso, certe cose ce le meritiamo tutte.

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